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Giorgio Vicario, il brigante di Pisogne


di Alberto Fossadri

Il nome di Giorgio Vicario non è ancora del tutto dimenticato in Valcamonica. La sua fama è dovuta alla malvagia delinquenza delle sue azioni e alla notevole sfrontatezza che ha dimostrato di fronte alle autorità bresciane. Era figlio di tempi duri dove brigantaggio e violenza regnavano incontrastati, tanto da rappresentare un problema quotidianamente discusso nel Senato e del Consiglio dei X di Venezia, che proprio non riusciva a debellare la delinquenza dal territorio bresciano. Vissuto nel XVIII secolo e nato contadino, sarebbe dovuto vivere e morire come tale, ma quella vita gli andava stretta e una serie di vicissitudini lo hanno portato a diventare il capo di una banda di assassini che spadroneggiava in tutta l’area del Sebino e della Valcamonica.

Giorgio Vicario nacque nel 1695 a Pisogne. Di solito è difficile apprendere nozioni sulla vita giovanile degli abitanti di paesi rurali, ma essendo diventato famoso, anzi famigerato, le cronache del suo tempo investigarono a fondo e ci hanno riportato notizie interessanti. Da queste cronache emerge che Giorgio era un ragazzo intelligente, attento agli insegnamenti della catechesi parrocchiale che apprese probabilmente anche dai frati agostiniani che a Pisogne avevano un convento molto attivo. Era ben consapevole delle disquisizioni sui temi religiosi del suo tempo, e dopotutto solo pochi decenni prima a Pisogne l’Inquisizione aveva condannato al confino l’arciprete don Marcantonio Recaldini, riconosciuto colpevole di combutta con gli eretici pelagini di Milano. Negli anni giovanili del Vicario, iniziava a fermentare un groviglio di nuove idee che anticipavano il secolo dei Lumi, e uno dei portatori di queste teorie fu don Giuseppe Beccarelli che a Pisogne allestì un convitto per l’educazione dei giovani, sostenuto da nobili e borghesi locali. Probabilmente la sua visione del mondo ha contribuito a forgiare e idee di Giorgio. Tali idee, fuori dalle voci tradizionali, e la concorrenza con i Gesuiti hanno portato a processo il povero sacerdote con l’infamante accusa d’eresia. Il processo allestito in piazza Duomo portò alla confessione “strappata dalla tortura” del sacerdote, che se la cavava con una pena da scontare ai Piombi di Venezia. A quel tempo Giorgio aveva 15 anni, ma possiamo ipotizzare che quella condanna venuta dall’Alto Clero, poteva suonare alle sue orecchie come una tremenda ingiustizia. Fatto sta che sappiamo quanto il carattere del Vicario fosse estremamente spavaldo, e già da giovane manifestava questa tendenza, non preoccupandosi di dire ciò che pensava ad alta voce. Fu così che nell’estate del 1717 Giorgio si accapigliò con un compaesano. Ci scappò il morto e a 22 anni divenne così un fuggiasco a cui la giustizia avrebbe dato la caccia.

Conoscendo bene il territorio, si nascose sui monti per mesi. Non volendo tornare per evitare di innescare una faida familiare, e proteggere così i genitori e i due fratelli, decise di recarsi in città. Gli balenava in testa l’idea di diventare un bravaccio di quelle ricche famiglie cittadine, che a quel tempo a Brescia si circondavano di marmaglia per garantire la propria sicurezza. Le famiglie nobili infatti erano estremamente litigiose tra loro, oltre a inimicarsi i poveracci che invidiavano i loro privilegi (o si lamentavano dei loro abusi).

Appena sceso in città in una sera di ottobre, s’infilò in una bettola per cercare di capire a quali porte avrebbe dovuto bussare per ottenere quel che cercava. Il locale era in quella che oggi è piazza Tebaldo Brusato, e per sua sfortuna nella locanda erano presenti alcuni sbirri del Podestà. Possiamo immaginare l’aspetto di Giorgio dopo mesi passati come uccel di bosco… con quel suo accento camuno poi, doveva avere l’aria un tantino sospetta. Giorgio deve aver sentito su di sé occhi indesiderati e si avviò presto all’uscita. La situazione dev’essersi fatta confusa in un attimo, e uno degli sbirri gli si parò davanti. L’uccisione del compaesano non doveva averlo turbato più di tanto, dato che senza pensarci troppo la sua mano guidò il coltello dritto dritto sul corpo dello sbirro che gli sbarrava il passaggio.

Corso fuori cercò di sparire nel buio della sera tra le vie della città, diretto a nord verso la collina del castello da dove era venuto. Sarebbe dovuto passar di lì per tornare sui suoi monti. I suoi passi frettolosi lo tradivano e gli sbirri accorsi per acciuffarlo gli stavano alle calcagna. Per evitare di trovarsi davanti altra gente poco gradita, di cui il castello era ovviamente pieno, decise di scavalcare il muro di cinta di un brolo lì vicino, ma fu visto dagli inseguitori. L’avevano nel sacco, penserete. Ma qui sorse un problema per gli sbirri. Quel brolo era una delle ortaglie del monastero di S. Giulia e quel muro delimitava il confine con le monache di clausura cui Giorgio Vicario chiese asilo. Le leggi all’epoca erano un poco più complicate, e circondato il monastero le autorità dovettero passare a chiamare il Podestà, che a sua volta chiamò il Vescovo ed entrambi si precipitarono all’ingresso del monastero, pretendendo dalle suore la consegna dell’assassino. Le monache rifiutarono, e potevano farlo. Godevano di un privilegio risalente a circa mille anni prima. Il re Desiderio (di cui la moglie Ansa fu la prima badessa del monastero) aveva concesso alle monache diversi privilegi. Tra questi anche quello che delle cose inerenti l’interno delle loro mura, le monache avrebbero dovuto rispondere solo al Papa. La vicenda si svolse così: le monache vennero svegliate dalla soldataglia che con pugni e calci sul portone chiedeva con arroganza di poter entrare. Le religiose, orgogliose dei propri diritti, sbarrarono l’accesso alle autorità. Giunti il Vescovo e il Podestà i soldati tornarono alla carica, minacciando che se non avessero consegnato l’omicida non avrebbero esitato ad usare le armi. L’avessero mai fatto! Le religiose non solo s’impuntarono sui loro diritti, ma alcune di esse si presentarono in strada con armi da fuoco in pugno, promettendo battaglia pur di non cedere. È chiaro che la tensione tra le monache e le autorità, dipendeva da fattori pregressi, e Giorgio si era trovato per sua fortuna nel mezzo della contesa. Per tre giorni proseguì il tira e molla, e quando le autorità riuscirono ad accedere, dell’assassino non c’era più traccia. Le monache erano riuscite a far fuggire il Vicario travestendolo da donna e facendolo uscire da una porticina di servizio.

Tornato alla sua valle, per Giorgio fu chiaro che l’unica vita in libertà che gli era possibile era quella di darsi alla macchia. Riuscì ad aggregare un gruppetto di manigoldi coi quali iniziò a malmenare i possidenti della zona a scopo di estorsione. Continuò così per alcuni anni, e più volte lui e la sua banda furono responsabili di omicidi. Dopodiché, braccato dalla giustizia, passò il Tonale e si diresse in Tirolo dove si arruolò nelle fila dell’esercito dell’Arciduca Carlo VI d’Austria, ma la vita del soldato era più faticosa del previsto e vi rimase poco più di un anno. Alla fine tornò a Pisogne, e abituato a vivere di violenza mise subito in piedi una banda di malnati e si diede a taglieggiare su scala ancora più grande. Nei primi tempi uccise diversi soggetti riuscendo ad ottenere alcune proprietà, si fece costruire un palazzetto sulle pendici della montagna in località Motta, e da quel luogo dominava la zona sottostante. Più volte gli mandarono gli sbirri per trarlo in arresto, ma la banda era numerosa e se questi non si accontentavano di accordi col bandito, scoppiavano sparatorie a colpi di archibugio.

Il suo controllo sulla viabilità era arrivato al punto che chiunque transitasse da Pisogne per recarsi in valle, fossero anche autorità della Repubblica, dovevano chiedere il suo permesso. Da allora chiese di esser chiamato Signore Illustrissimo, tanto per capire la spavalderia che lo caratterizzava. Tutti nella zona gli obbedivano e lui s’intrometteva in ogni contesa sorta tra i signorotti locali, risolvendola spesso con la prepotenza. Per questi “servigi” si faceva pagare profumatamente. Le autorità venete arrivarono a mettere sulla sua testa diverse taglie, che oggi avrebbero il valore di milioni di euro. Ma a Giorgio fregava talmente poco, che in barba alle minacce di cattura non disdegnava di recarsi in città a Brescia, dove rimaneva diversi giorni senza esser scomodato da alcuno. In una cronaca si ricorda che alla festa del Corpus Domini si fece notare in città vestito come un damerino, mentre sfilava tra le nobiltà locali spadino al fianco, gilè e marsina ricamata, braghe e calze aderenti, e con i piedi infilati in scarpe basse con fibbia, sul viso una barbetta a punta, una sgargiante cravatta al collo e capelli lunghi annodati in nuca con un nastro di stoffa e in testa un cappello a larghe tese con piumaggio. Tutti sapevano chi era, e tutti lo avevano notato, ma nessuno mosse un dito. Probabilmente aveva anche agganci con potenti famiglie cittadine che lo proteggevano.

La sua spavalderia è protagonista di un altro aneddoto che lo colloca a Rovato, in Franciacorta. Gli giunse a orecchio che un tale Bevilacqua, capitano di compagnia dei soldati del Podestà a Brescia, s’era impegnato pubblicamente ad organizzare la sua cattura. Giorgio Vicario seppe dai suoi che il capitano abitava a Rovato. Don Vicaré (come lo chiameremmo oggi) scese in Franciacorta con 40 uomini della sua banda e si recò nella piazza di Rovato dove abitava il Bevilacqua. Qui alla luce del sole si mise a giocare a palla con i suoi, dando ad intendere che era venuto per parlare col capitano e per stringergli la mano. Il Bevilacqua si guardò bene dall’uscire di casa…

Le capacità imprenditoriali del Vicario erano semplici: quando le casse della sua banda esaurivano, convocava qualche ricco borghese chiedendogli a suon di bastonate o minacce di fargli grosse donazioni. Tra i suoi delitti più efferati si narra di un certo Damiolo che si trovò davanti Giorgio Vicario mentre stava lavorando. Costui gli chiese una grossa donazione, e dopo aver tergiversato un po’ il Damiolo rifiutò. Giorgio e i suoi cominciarono a bastonarlo con l’intento di ucciderlo, ma il malcapitato cercò di prendere tempo. Tutti sapevano della religiosità del Vicario, perciò pregò di non ucciderlo finché non si fosse confessato. Il bandito fece chiamare un curato e dopo aver minacciato di morte quest’ultimo se avesse osato parlare, lasciò che confessasse Damiolo. Poi, cacciato il prelato, riprese a bastonare l’uomo fino ad ucciderlo. Infine legò una pietra al collo del cadavere e lo fece gettare nell’Oglio. Il corpo riemerse dal lago d’Iseo molti giorni dopo e nessuno ebbe dubbi sull’autore del delitto.

È difficile comprendere quale religiosità ispirasse un uomo tanto violento, ma dopotutto ci è facile vedere delle similitudini con i peggiori boss della mafia moderna nelle cui tane non mancano santini, crocifissi e statuette della Madonna. Le cronache comunque sono concordi, il Vicario teneva molto ai precetti religiosi (tranne quello di non rubare e non uccidere evidentemente), tanto che spesso onorava i frati del paese invitandoli nel suo palazzo e ospitandoli con tutti gli agi alla sua tavola apparecchiata con posate d’argento e calici di cristallo, attorniato da una numerosa servitù e perfino da un lacchè. Alle celebrazioni dei Tridui dei Defunti ad esempio, è noto che vi partecipava sempre con profonda devozione obbligando anche i membri della sua banda ad assistere alle funzioni.

Le sue malnate però, gli procurarono molti nemici. A Gromo, paese della bergamasca dove ogni tanto sconfinava, fece torto a un oste di nome Luca. Anche l’amico e compaesano Franchino, che gestiva una beccheria a Pisogne, mal sopportava che la sua banda pretendeva a scadenze regolari di far la spesa nel suo locale senza pagare il conto. Ma la goccia che portò l’amico al tradimento fu quando Giorgio decise di aprire una beccheria vicino alla sua, vendendo la roba sotto costo grazie al fatto che il bandito non si preoccupava di pagare i dazi sulla carne, visto che le bestie macellate erano frutto di regalie o furti. Anche il bandito Giuseppe Secchi aveva del rancore verso Giorgio, ma oltre a questi tre, si ricorda un Bariselli che era un infiltrato di quelli che potremo chiamare i “servizi segreti” della Serenissima.

Nascosti a Pisogne per 15 giorni, i quattro nemici che avevano giurato vendetta attesero il momento buono. Il venerdì 14 novembre 1727, saputo che il bandito era entrato nella sua beccheria, i quattro uscirono allo scoperto e lo raggiunsero. Appena entrato Giuseppe Secchi gli tirò addosso due archibugiate facendolo crollare a terra. Pare che Giorgio non fosse morto subito ma rimase ferito. A finirlo fu probabilmente il Bariselli che lo decapitò e mise la sua testa in un fazzoletto. Molto rapidamente i quattro si misero in fuga verso il porto e il fratello del Vicario, assieme ad altri corse dietro a loro innescando una sparatoria, nella quale morì un altro degli sgherri del bandito. Alla fine i quattro riuscirono a prendere un’imbarcazione e raggiungere Lovere, dove le autorità riconobbero la testa del bandito e fecero suonare le campane a martello. Scortati a Bergamo, fecero portare la testa a Venezia conservata con sale e foglie di lauro. La fine di Giorgio Vicario fu salutata positivamente in tutta la valle e si celebrarono anche funzioni religiose per celebrare la sua morte. Ironico per lui, che sebbene fosse un brigante sanguinario, non aveva osato toccare i beni della chiesa o nuocere a preti e suore. La sua era forse una strana fede, ma come dice un vecchio proverbio “ogni briccone ha la sua devozione”.

Alberto Fossadri

Fonti:

Biblioteca Queriniana – Cronache di Alfonso CazzagoL. Giarelli, Giorgio Vicario bandito decollato di Pisogne in Valle Camonica, in Banditi e fuorilegge nelle Alpi tra Medioevo e primo Ottocento, a cura di L. Giarelli, Tricase 2017, pp. 9-32G. Botticchio, Giorgio Vicario, il Bulo di Pisogne, in Banditi e Fuorilegge dimenticati, storie di irriducibili al futuro che viene, a cura di C. Mornese e G. Buratti, Lampi di Stampa, 2006, pp. 61-69Annunci


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